Al mattino la trovai così: bagnata fradicia e rovesciata sul dorso.
L’ochetta, ultima nata, sembrava voler lasciare questo mondo.
Le sorelline pigolavano beatamente saltellando nella gabbia senza curarsi minimamente della poverina, anzi, ogni tanto la calpestavano senza pietà mentre si rincorrevano felici.
Sollevai la poverina e l’asciugai con la mia maglietta. Dopo cinque minuti di strofinii quel povero corpicino incominciò ad avere una forma e ridiventò un meraviglioso batuffolo di piume dorate ma purtroppo non riusciva più a stare in piedi. Il collo inclinato su di un lato non lasciava presagire nulla di buono.
La portai a casa e la misi in una gabbietta con il fieno ed una vecchia calza di lana grezza sotto la quale si rannicchiò.
Ochetta, poverina, era tanto bella quanto malandata.
Ci provai, con tutte le mie forze a trattenerla in questo mondo ma la mattina dopo la trovai sotto la calza, senza vita.
Seppellire un esserino così meravigliosamente perfetto non è facile.
E’ un grande dolore e l’impotenza davanti alla fragilità di queste creature è disarmante.
Mentre adagiavo Ochetta nella buca, alle mie spalle sentivo pigolare le sue sorelline che si rincorrevano sul prato ignare dell’accaduto. Due piumini dorati tra l’erba verde e i fiori rosa che si affacciavano alla vita con l’entusiasmo delle nuove scoperte e il dolore della perdita veniva sopraffatto dalla bellezza delle loro esistenze.